L'attore originario di Ranica, per anni sul palco con Gigi Proietti, ci svela alcune curiosità sulla sua carriera e ci racconta i particolari della nuova pellicola che porta in scena la ritirata di Russia
Nicola, un film molto importante "La seconda via", uscito da poco nelle sale di tutta Italia dopo dieci anni di pre-produzione e che offre al pubblico la memoria di una delle pagine più tragiche della storia italiana. Qual è il significato implicito di questo titolo?
Il titolo rappresenta una seconda fuga, una seconda realtà parallela a quella esistente. Nelle varie testimonianze anche letterarie dei reduci di guerra tornati dalla Russia ci sono sempre frasi del tipo: "Nella sacca il tempo si fermava. Era molto più reale quello che vivevo nella mia testa che quello che vivevo fuori". Ci sono state chiare allusioni al fatto che ciò che l'alpino viveva durante queste infinite e sterminate ore di marcia, l'immedesimazione mentale come resistenza nel ricordo, nel sogno, nel flashback erano più forti di qualsiasi cosa, persino della realtà. Quindi La seconda via rappresenta, appunto, quel mondo immaginifico che il cuore dei militari italiani viveva durante la ritirata e che era molto più reale di ciò che succedeva attorno, cioè della guerra.
La pellicola è stata costruita su tre livelli: presente, sogni e flashback. Vuoi spiegarci meglio il suo tessuto narrativo?
Ciascuno dei personaggi rappresenta un qualcuno che a livello letterario, o a livello biografico, ha vissuto quelle determinate esperienze. C'è l'alpino che perde i piedi per il congelamento; c'è l'alpino che deve essere portato sulla slitta perché ormai preso dalla febbre e in fin di vita; c'è quello che invece deve tenere salde le truppe a livello emotivo; c'è quello che deve tenere salde le truppe a livello militare; c'è quello che si rifugia nei sogni come c'è un ragazzo che non vede l'ora di tornare a casa dalla mamma, così come invece c'è la storia forse più toccante di tutto il film: il ragazzo che chiede alla sua morosa di venire a prenderlo vestita da sposa.
Questo sogno, questo flashback, questo presente si mischia con la mano sapiente del regista, che attraversa le anime dei vari alpini. Questo è un viaggio nel loro Io, più che qualcosa di esterno. A livello narrativo non c'è un ordine cronologico o logico in cui le cose succedono. È un rimbalzarsi da un sogno, una speranza, un'illusione a una realtà cruda che sta accadendo, come se noi fossimo proprio dentro la mente degli alpini, come se noi stessimo immaginando e fossimo insieme a loro a camminare e la nostra mente divagasse passando da un ricordo all'immaginazione di una situazione.
I protagonisti sono sei alpini e tu interpreti la parte del bergamasco che guida il suo mulo in tutta questa terribile ritirata. Quando hai girato le scene, emotivamente come ti sei sentito? Che cosa ti ha lasciato a livello personale?
A livello personale mi ha lasciato un attaccamento a questa storia assolutamente molto forte. Ancora oggi, a distanza di mesi da quando abbiamo girato il film, mi vengono da leggere le storie legate ai reduci, spesso sottovalutate e poco raccontate da questi ragazzi che hanno compiuto qualcosa di davvero disumano.
A livello emotivo mi sono trovato benissimo col gruppo e con il regista, che è stato il nostro condottiero, il nostro capitano. Ha tenuto salde le truppe e alto il morale anche nel periodo in cui sembrava non dovessimo girare mai questo film, diventato per noi una chimera.
Mi ha lasciato senz'altro un attaccamento molto forte all'animale del mulo. Io ho recitato già in film in cui dovevo cavalcare un cavallo, stare con una capra, stare a contatto con altri animali e devo dire che il mulo è il primo animale che mi ha colpito davvero al cuore da quando faccio questo mestiere. E, comunque, nonostante io abbia avuto scene anche girate a cavallo anni fa in un film uscito su Netflix (dove interpretavo Lorenzo De Medici), nella pellicola Il furore di Michelangelo, questo animale non mi ha mai lasciato chissà che cosa. Mentre, invece, il mulo sì. Anzi, dico grazie al signor Piero Dolci: ogni domenica salivo in Val Serina e lui mi permetteva di fare un giro da solo nel paese col mulo. Mi dava le briglie e diceva: "Ta sarét mia stöpet?".
Sono stati davvero fantastici anche il pathos della storia e il legame con gli altri, l'importanza e il messaggio che dovevamo passare e che ci ha legato più di qualsiasi altra cosa, oltre al fatto che davvero abbiamo dato tutto quello che potevamo per questo film. Mi ricordo ancora oggi quando abbiamo girato con le scarpe che utilizzavano gli alpini veri nella neve. Siamo tornati al mattino in hotel dopo quattro ore di riprese e avevamo i piedi viola, perché vi era entrata l'umidità, il freddo, la neve e posso confermarlo. Non erano scarponi di cartone come spesso si racconta, ma comunque lasciavano traspirare qualsiasi cosa. Quindi, dopo cinque minuti nella neve, già erano fradici.
In passato, esattamente nel 2015, avevi già interpretato un alpino bergamasco in Soldato semplice di Paolo Cevoli, famoso per essere il simpatico assessore romagnolo di Zelig. In questo caso però si trattava di una commedia. In quale dei due ruoli ti sei sentito più a tuo agio, quello drammatico de "La seconda via" o questo?
Per quanto i contesti siano simili, cioè Prima Guerra Mondiale e Seconda Guerra Mondiale, austriaci, russi e alpino bergamasco in entrambi i casi, sono stati due lavori diametralmente diversi, proprio come approccio al testo e al personaggio.
Con Paolo dovevamo comunque tenere un certo ritmo comico. Secondo me è stata una storia molto ben raccontata e lui ha avuto certamente un grande talento nel farlo. Anche in questo caso è stata una situazione in cui tutti ci siamo trovati molto bene, eravamo di famiglia. Abbiamo vissuto insieme un mese e mezzo a Bormio e abbiamo girato le scene sempre tutti presenti, anche se magari quel giorno non dovevamo recitare. È stato un clima molto bello, ma la storia che si raccontava era più casereccia. Ci eravamo isolati un po' in quel mondo di Bormio, dove il tempo sembrava essersi fermato e dove è stato bello lavorare anche con leggerezza, seppure fosse il mio primo film e fossi tesissimo. Già! Era il mio primo film e mi capitava pure il ruolo da co-protagonista. Non so a quanti altri possa essere successa una cosa così, ma Paolo mi ha dato piena fiducia e di questo gliene sarò sempre grato. Era un lavoro che puntava molto sul ritmo comico, sul voler rappresentare dei personaggi che stessero assieme quasi come una compagnia teatrale, quasi come un'allegra brigata, nonostante il contesto della guerra.
Invece "La seconda via" ha un peso molto più drammatico, molto più da cinema d'autore, molto più di responsabilità su quello che si andava a raccontare. È una storia un po' tabù e soprattutto fa rivivere questi centomila ragazzi di cui più nessuno ha narrato. Quindi sentivamo il peso di questo racconto e il peso di doverlo raccontare rendendo onore, senza rischiare di diventare le macchiette dialettali oppure caratterizzare troppo i personaggi diventando i "sette nani".
Volevamo fare un lavoro che fosse sentito da tutti in armonia dal gruppo e avesse riferimenti linguistici interpretativi attoriali comuni, in modo tale da poter raccontare la storia al meglio.
Se mi chiedi in quale ruolo mi sono sentito più a mio agio, ti dico in entrambi. Con Paolo ho avuto meno tempo per prepararmi perché comunque sono stati due mesi dove ho dovuto imparare tanto del personaggio per andare in scena. Qui ho avuto più tempo (quasi dieci anni) per prepararlo. Mi sono studiato la bergamaschicità e ho avuto vari punti di riferimento come fonte d' ispirazione per il personaggio, tra cui mio nonno Antonio, che è venuto meno nel 2021. Ho preso molto da lui, ma anche da altri bergamaschi che io ho conosciuto strada facendo. Mi sono sentito a mio agio a farlo adesso, a trentadue anni, dopo i dodici che faccio questo mestiere. Se l'avessi fatto quando siamo stati presi per il casting, cioè dieci anni fa, probabilmente avrei fatto molta più fatica perché è un personaggio che comunque si porta dietro del vissuto e ci volevano una certa preparazione ed esperienza per poterlo raccontare.
Continuando con il tuo curriculum, hai partecipato al film avventuroso Drive me home e nella serie Rai La strada di casa. Che effetto ti fa rivederti al cinema o sul piccolo schermo?
Mi sono abituato col tempo. Prima ero molto severo con me stesso. Non mi piacevo mai in qualsiasi cosa facessi. Dicevo sempre che la potevo fare meglio. Ora è rimasto il "potevo farlo meglio", quello sempre a prescindere, però poi ho incontrato una regista teatrale strada facendo, Lisa Ferlazzo Natoli, alla quale devo tanto e che mi ha aiutato molto sul mio cammino. Lei mi disse che la maturità di un attore era anche capire fino a che punto certe cose andavano oltre al proprio gusto personale e che cosa poteva migliorare con obiettività. Tant'è che ho imparato ad accettare dei lati di me, a migliorarne altri e ad apprezzarmi per quello che faccio. Adesso sono meno stronzo con me stesso e mi fa un bell'effetto rivedermi anche a distanza di tempo, perché è una soddisfazione. Quando io riesco a entrare in un progetto è sempre perché io voglio raccontare una storia, voglio raccontare il personaggio, voglio vivere proprio quella realtà, voglio proprio vivere quel mondo lì e isolarmi da tutto il resto. Non mi interessa raccontare di Nicola Adobati. Penso che la cosa più bella sia raccontare un personaggio che sia lontanissimo da me, tant'è che il complimento più bello che mi fanno ogni volta è quando mi dicono: "Io conosco Nicola, ma Nicola non è così! Ma chi è questo?". Oppure ti dicono: "Cavoli, non sembravi tu!" o "Non pensavo che tu potessi essere così". Quindi io vivo per immedesimarmi in queste cose, per isolarmi, per vivere in altri mondi e raccontare storie che passino messaggi importanti o messaggi, semplicemente, o che emozionino le persone. Queste sono le cose più importanti che un attore non dovrebbe mai dimenticare.
Se è per il gusto di dire "Mi rivedo perché c'è il mio faccione sul grande schermo o sul piccolo schermo", no…non me ne frega niente, con sincerità.
Nel 2019 interpreti la parte di Lorenzo de Medici ne Il Peccato - Il furore di Michelangelo. Ci racconti un aneddoto simpatico (visto che il film è drammatico :-) ) che ti è accaduto sul set?
Abbiamo provato tutto il giorno una scena di lotta che doveva svilupparsi all'interno di un castello dove il Duca di Urbino, che ero io (Lorenzo de Medici), andava a invadere il Ducato di Urbino e lo sottraeva ai Della Rovere. Si trattava di una scena di lotta di spade e, a un certo punto, io dovevo essere preso in questa rissa, buttato in una fontana e dovevo fare una specie di mossa di breakdance, cioè fermarmi con le gambe in alto dentro l'acqua. Poco prima che affogassi, qualcuno doveva tirarmi fuori. Siamo stati lì a provare tutto il pomeriggio, senza acqua nella fontana. Tra l'altro il gomito non me lo sentivo più dopo sei ore di prove e sono tornato in hotel con un mal di testa terribile (faceva un freddo boia quel giorno ed eravamo in camicia rinascimentale!). Il giorno dopo arriviamo sul set e mi dicono: "No, vabbè, la rissa la togliamo perché abbiamo troppo poco tempo. Facciamo una cosa: arrivi a cavallo; il cavallo è abbastanza veloce; tu smonti da cavallo, scendi e lo guardi correre". Io non avevo mai visto un cavallo nella mia vita, quindi quello è stato un aneddoto meno simpatico per i miei piedi quando hanno toccato i sampietrini, ma mi sono detto che, se avevo superato il fatto di scendere da cavallo al volo, potevo fare qualsiasi cosa.
Non solo cinema nella tua vita. Veniamo, infatti, alla tua storia teatrale con Gigi Proietti. Mi dicevi che dal 2013 al 2018 hai recitato sul palco romano del Globe Theatre con il grandissimo e compianto attore italiano replicando, oserei dire quasi all'infinito (circa centoventi volte), il suo Romeo e Giulietta. A parte il piccolo particolare in cui ti ha chiesto di recitare con accento bergamasco, hai un ricordo bellissimo di lui non solo come grande professionista, ma soprattutto come uomo. Ce lo puoi delineare quasi dovessi fare di lui un grandangolo?
Con Gigi abbiamo fatto più o meno centoventi repliche… ho perso il conto strada facendo. Era un signore buono di cuore e lo si vedeva in qualsiasi cosa facesse. Mi ha sempre stupito il suo essere umano nella dimensione dove, di umano, molto spesso c'è poco e dove lui spesso non era trattato come tale, ma sempre come una divinità ovunque andasse a Roma, figurati! Pensa a questo rimanere sempre con i piedi per terra, questo mettersi sempre in discussione, questo rimanere sempre dietro le quinte finita la mia scena e dire: "Ah, Nicola! Senti come hanno riso stasera?". Oppure anche il fatto che mia mamma sia venuta quattro/cinque anni di fila a vedere lo spettacolo e ogni volta andava da lei e le diceva: "Signora, le è piaciuto lo spettacolo?".
Ci teneva tantissimo che al pubblico piacesse il suo spettacolo e amava vederlo emozionato.
Non l'ho mai visto una volta arrabbiarsi e io ho lavorato con lui dal 2013 al 2018. Viveva per aspettare la fine e andare in osteria tutti insieme con la chitarra. Viveva per stare con i giovani. Sembrano frasi fatte perché non sai cosa dire di questi personaggi e devi per forza parlarne bene, ma se non fosse così non lo direi. Lui ha lasciato in tutti noi della compagnia un testamento umano su come essere umani. Era una cosa a cui lui ci teneva tantissimo e ci emozioniamo ogni volta che lo ricordiamo. È stato proprio un rapporto bello, di cuore quello che abbiamo avuto con lui e il ricordo dei mesi che io passavo a Roma (solitamente da giugno ad agosto) assieme a lui e alla compagnia sono tra i più belli che mi porterò a vita.
Ora ti toccano le "Bergamodomande"!
Fin da quando eri piccolino, hai sempre avuto dentro di te l'amore per la recitazione. Amavi guardare tanti film e inventare spettacoli con i burattini. A tal proposito, hai mai visto gli spettacoli del grande burattinaio bergamasco Pietro Roncelli col suo mitico Giopì?
I burattini sono il mio primo grande amore, infatti ho in camera mia quelli di Arlecchino e di Gioppino. Quest'ultima è una figura molto più conosciuta qui a livello burattinesco rispetto a quella di Arlecchino. E per quanto di Arlecchino noi ci forgiamo tramite le pro loco come maschera celebre, in realtà si sente più l'attaccamento a Gioppino, perché ormai Arlecchino è stato "trasferito" a Venezia.
Pietro Roncelli io lo conosco, nel senso che ho visto uno o due suoi spettacoli. Secondo me è molto bravo e non c'è bisogno di me per dirlo, perché è un mostro sacro all'interno del panorama burattinesco nazionale. Ma il mio amore a livello di burattinai rimane Davide Cortesi, allievo del grande Benedetto Ravasio. Mi sono visto tutti i suoi spettacoli quando ero piccolino. E ricordo ancora quando, a vent'anni, sono andato a vedere il suo spettacolo di burattini: è uscito lui con Gioppino e ho avuto vergogna a chiedere la foto con lui e Gioppino perché per me il suo Gioppino è un po' come il mio Superman. Ho avuto due eroi nella mia vita: Zorro e il Gioppino di Cortesi. Quindi è stato amore a prima vista da quando ero bambino; è sempre stata la mia maschera preferita all'interno dei burattini bergamaschi.
Tu ora abiti a Scanzorosciate e ovviamente la scontata domanda di rito è: "Ti piace il Moscato di Scanzo?" :-)
Sì, mi piace tanto. In particolare mi piacciono quelli di alcuni generi, più rosè e dolci.
La tua cara nonna è fondatrice, assieme a Madre Teresa di Calcutta, di Missione Calcutta Onlus di Bergamo. Vuoi raccontare ai nostri lettori l'importanza di questa associazione non solo a livello internazionale (India, Kenia, Ucraina) ma soprattutto per Bergamo?
Madre Teresa le ha aperto la strada e le ha dato dei consigli. Poi è toccato a mia nonna fare il tutto.
È un'associazione di sicuro che agisce di cuore e lo so perché ci collaboro da trent'anni, da quando sono nato. Massima trasparenza, massimo cuore, vicinanza e tanto bene che si fa in varie parti del mondo. Ci tiene tantissimo al rapporto con le persone e a non diventare grandi per non perdere questa dimensione familiare. È importante far del bene, a prescindere dall'essere in Kenia, Thailanda, Ucraina, Italia, India perché, se alla fine cominciamo a selezionare le persone per sesso, per colore della pelle, per gusti sessuali, per gusti politici, per qualsiasi cosa… è finita. Siccome viviamo in una società che sta sempre più tagliando i capelli neanche in quattro ma in sedici, per cui non ci si trova ormai più in un gruppo ma in noi stessi vivisezionati in parti sempre più piccole e non abbiamo quasi più nessuno come punto di riferimento, secondo me è invece importante ricordarci del macro-obiettivo, come dice mia nonna: "Una giornata spesa senza aiutare qualcuno non è una giornata ben spesa".
Qui abbiamo dato una mano in periodo di Covid, l'abbiamo data con l'emarginazione sociale, con la povertà educativa, stiamo aiutando il territorio facendo arrivare tonnellate di prodotti per l'igiene personale. Ma che sia Bergamo o sia India, l'importante è fare del bene perché vedo che è molto radicata questa cosa che, se fate in India, do una mano, se a Bergamo o in Italia va bene, se all'estero in altri luoghi non va bene. Non sono mondi paragonabili e soprattutto bisogna smettere di selezionare l'aiuto e il prossimo in questa maniera.
Grazie mille!
Potete trovare Nicola Adobati ai seguenti contatti:
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YouTube: Nicola Adobati
Intervista fatta da Arianna Trusgnach per Chèi de Bèrghem
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